Faro un porto per noi

Depressione, solo chi conosce il male oscuro
sa quanto conti il sostegno clinico

Solo chi non ha conosciuto, personalmente o clinicamente, il male oscuro, sa cosa può aver vissuto il ragazzo che si è suicidato a Teramo dopo averlo annunciato con un video su Youtube. Dopo aver cercato un interlocutore che reggesse il suo sguardo, ha scelto di farla finita non prima di aver elencato l’inconsistenza delle azioni meccaniche che lui non chiamava più ‘vita’.

La melanconia può sfociare in uno stato di assoluta pietrificazione dell’esistenza, poiché il soggetto affetto da depressione maggiore che vive ab origine ai margini della vita, non ha potuto rivestire le proprie azioni di desiderio, tanto che sin dai primi disincanti adolescenziali vivere non gli appare null’altro che una serie meccanica e spettrale di azioni che hanno come fine la consunzione e la morte. In un giorno qualsiasi del melanconico, ogni azione, ogni ricordo, ogni progetto e ogni movimento, si condensano in un unico e irragionevole polpettone senza senso e senza gusto, un giardino nel quale tutti gli attrezzi sono rovinati ed ammassati arrugginendo. Dove nulla vale più la pena. E’ quello il momento più pericoloso, nel quale il sostegno clinico ed amicale non deve mancare…

È questo che deve aver sentito David Foster Wallace prima di farla finita, pur avendo ancora tanto tempo davanti. La contingenza del collasso del passato e del futuro, un buio che cala di colpo sull’anima di persone come il ragazzo protagonista del video, è stata ben descritta da Andrea Pomella ne L’uomo che trema. A pochi è toccato in sorte, magari dopo un momento grigio, o a seguito di una crisi, fermarsi dal correre quotidiano e mettersi a pensare a quanto le propria vita sia insignificante, quanto tante azioni obbediscano a meccaniche automatiche. Quanto il lavoro sia spesso un susseguirsi di attimi di fatica, intervallata a riposo, che prelude poi ad una vecchiaia fatta di dolori e patimenti.

Il melanconico ha questo drammatico dono: egli riesce a percepire tutto l’arco di una vita racchiuso in pochi fotogrammi, in una sorta di tempo rappreso, a causa del quale il domani è un tappa già oltrepassata, la fine l’evento ineluttabile. “Perché devo fare un figlio? Tanto morirà”, “Perché sposarmi? Uno dei due si ammalerà, e l’altro vivrà solo e povero”. Il melanconico non delira, ma vede la realtà nella sua orrenda ossificazione, nella nuda e cruda sequenza dei passaggi temporali. Il melanconico vede al di là di Matrix e osserva la devastazione del paesaggio senza poter contare su occhiali che attenuino la luce buia che sgorga dalla fine della strada.

Nella testimonianza di questo adolescente, si vede in controluce la proiezione di un film all’incontrario. Nell’animo del depresso grave ogni giorno che passa solo illusoriamente ne prepara un altro. Drammaticamente egli percepisce come tutta la vita sia un battere di ciglia, nel quale vita e morte sono separati da pochi attimi. Il melanconico si erge sopra i bastioni del tempo, come una farfalla, consapevole di vivere un solo giorno. La melanconia, il ritiro sociale di adulti e adolescenti, le improvvise chiamate fuori dalla vita, i suicidi nelle caserme, sono un elemento in crescente aumento negli studi di un clinico, e costituiscono quel mal di vivere che forse ci impegna più di ogni altra sofferenza umana.

Quando un analista apre la porta ad un melanconico, che sia o meno coadiuvato da adeguato trattamento farmacologico, sa che questo può succedere, così come è ben certo che a poco servono storielle. Si va avanti giorno per giorno, ogni volta con una invenzione diversa. Senza mai venire meno a quel posto di soggetto deputato all’ascolto, all’apertura, alla disponibilità. Una posizione che un clinico deve saper mantenere, costi quel che costi.