Depressione, la malattia del vuoto nero

Quando mi arresi di fronte a una ragazzina senza volontà né forza

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Il depresso è un’anima instabile, luttuosa, morta. A scriverlo era Alda Merini.

Vi racconto una storia.

C’era una volta una bambina piena di vita, una bambina che conoscevo bene, che avevo visto crescere, fino a trasformarsi in una splendida diciottenne, questa bambina, come tutte le ragazzine si era fidanzata con un ragazzino bello come lei, avevano fatto l’amore senza precauzioni e lei era rimasta incinta, aveva deciso di non abortire, contro la volontà di tutta la famiglia, esclusa me, aveva dato alla luce una bambina straordinariamente bella e tenera.

La ragazzina-mamma però non era più quella bella bimba bionda che tanto amavo, si era trasformata in un esserino esanime, senza volontà né forza, scoprii così, per la prima volta, cos’era la depressione, la depressione post-partum.

Chi scrive non è madre, la vita non ha voluto regalarmi questa fortuna, ma le mamme depresse post partum probabilmente invidiano la mia posizione, quella di chi mamma non è.

Dentro il cuore e l’anima di quella ragazzina, che tanto amo ancora oggi, ho provato a entrarci con tutte le mie forze, fino ad arrendermi.
Si, allora mi arresi, mi sentivo inutile, impotente.
Fu uno dei grandi errori della mia vita, oggi lo so, perché la depressione, la depressione post-partum, è come un cancro, che ti entra dentro e solo con tanta fatica se ne va, con tanta forza, con tanta volontà, con l’attenzione di chi ti ama, con la considerazione del tuo male, anche se a volte non c’è forza e volontà che tengano.
A volte quel buco nero resta nell’anima, te l’annebbia, annienta la volontà e ti leva ogni forza.

Molti anni dopo, per lavoro, un brutto lavoro, mi ritrovai nello studio di un importantissimo psicologo e criminologo, a Roma.
Il mio compito era quello di visionare decine e decine di videocassette: erano interviste, interviste a mamme, interviste a “mamme assassine”, come le definiva il mio allora direttore.
Era l’epoca di Cogne, lui, lo psicologo, lavorava nel carcere di Castiglione delle Stiviere, un “ospedale psichiatrico giudiziario”, praticamente una sorta di manicomio criminale moderno, anche se non si può più, dopo la legge 180, definire tale.
È un esempio unico in Europa quello di Castiglione delle Stiviere, qui, infatti, non ci sono agenti penitenziari, ma solo medici, infermieri, assistenti sociali.
A Castiglione si arriva anche quando un magistrato abbia seri indizi nel ritenere che un delitto sia frutto di una grave patologia, è un luogo quindi più di cura che di detenzione.
Le “figlicide” d’Italia sono tutte qui, ricordo che ascoltando le loro testimonianze dal vivo mi assalì un sentimento di soffocante impotenza, anzitutto per la tragica ineluttabilità che sembrava accompagnare il loro gesto. Tutte sembravano unite da uno stesso contorno, chi viveva intorno a loro, madri, sorelle, mariti, amiche, appariva sempre incapace di cogliere i segnali di allarme, le richieste mute di aiuto, la loro profonda solitudine, la fragilità, l’angoscia, il senso di inadeguatezza, la responsabilità pesantissima di un’altra vita che sentivano sulle spalle come una prigione.

Quasi sempre tutto nasceva da una depressione post partum non riconosciuta, non vista, non affrontata, quasi sempre.
Coglievo in questa indifferenza la vera causa di quegli orrendi omicidi, quelle donne avevano cercato di esprimere il loro disagio e non avevano trovato altro che ciechi e muti intorno al loro buio silente, se una donna esprime il proprio disagio, chi la circonda tende a volgere lo sguardo altrove.
È un fatto.
Ho fatto la stessa cosa anche io, con la mia bambinetta cresciuta, però dopo quei pomeriggi a visionare cassette, dove accadeva sempre che loro raccontavano tutt’altro e solo in pochi momenti parlavano della loro esperienza (in alcuni casi del tutto rimossa e riemersa dopo sedute su sedute, come un qualcosa di represso nella memoria che improvvisamente ci torna in mente e ci fa disperare) ho imparato a guardare la realtà, ad ammetterla, ad affrontarla.
Perché intanto c’era qualcun altro che mi stava a cuore che sì, era caduta in quel buco, dopo la sua prima gravidanza e a quel punto non ce l’ho fatta a girarmi dall’altra parte e a non guardare più.

Vi racconto tutto questo non perché ogni donna depressa dopo il parto è una potenziale assassina dei suoi figli, non lo credo, non lo so.
Ve lo racconto perché negare la depressione come malattia – non solo quella conseguente a una gravidanza – è un errore che abbiamo fatto o facciamo in molti, a quelle anime instabili, luttuose, morte, di cui parlava Alda Merini, possono salvarsi solo se non si trovano di fronte a un muro di indifferenza, possono tornare alla vita solo se qualcuno riconosce che sì, sono malate di quel “vuoto nero” e che solo l’attenzione partecipata di chi le ama può dare loro uno spiraglio, fosse anche una piccola e forse flebile scintilla, di luce per uscire dal buio.

Lucilla Parlato (Napoli)
fonte: http://www.paralleloquarantuno.it